Sugimoto, Panofsky, Obrist, personaggi diversi con storie diverse ed epoche diverse sintetizzano in poche righe un concetto fondamentale nella mia fotografia, un’idea continua ed ossessiva, un desiderio ed una necessità che si manifesta in me continuamente e che magnificamente sintetizza Carlo Levi quando dice che il futuro ha un cuore antico.
Credo e cerco continuamente il rapporto con il passato, voglio che venga con me verso il futuro, credo fermamente nel potere evocativo di citazioni ed allusioni, non nella ricostruzione fotografica che sarebbe falsa e non costruirebbe qualcosa di nuovo, sia nel linguaggio che nella formazione di una nuova realtà tipica di ogni immagine.
Perché la fotografia, anche la più “reale”, è comunque portatrice di una realtà irreale, di una parte di mondo che viene scelta da chi scatta e decide cosa lasciare fuori dal fotogramma.
Pertanto si può affermare che la fotografia è quanto di più irreale ci sia nella realtà.
Questo è uno dei motivi per i quali amo poggiarmi ad elementi che alludono al passato: la tela, il nero ed un certo modo di trattare la luce.
Appoggiarsi a loro significa per me camminare insieme, fare gruppo per la costruzione di qualcosa che solo un autore europeo può realmente capire.
Credo che sia possibile che in un’altra nazione, con un’altra cultura, non ci sarebbe neanche interesse a farlo, in alcuni casi sarebbe materialmente impossibile per un’oggettiva mancanza di elementi storici. Ad esempio in Australia.
Ma in Italia è diverso.
Noi siamo immersi e sommersi dalla bellezza e dalla storia che, per quanto dal secondo dopoguerra ci stiamo impegnando a trascurare e a volte a cancellare, riemerge prepotente e forte per ricordarci che siamo fatti di carne, sangue e … arte.
C’è un desiderio profondo di mantenere e tramandare un forte senso identitario che nel mondo globalizzato tende sempre più a scomparire per diventare una melassa unica e quanto più possibile omogenea in un allucinante ed allucinato pensiero unico che vede questo modello come un evento necessario e nel contempo straordinario.
Questo accade ormai da circa un ventennio in tutte le attività umane, nel cibo, nel linguaggio, negli affari, nell’arte, nell’architettura e quindi anche nella fotografia.
Accade da quando il web è arrivato fra noi e con lui è scomparso il tempo ed il luogo.
Disapprovo la mancanza di differenze, l’uguaglianza come valore asettico ed assoluto e cerco di combatterla attraverso il mio lavoro fotografico cercando un linguaggio fuori dalle mode correnti, che affondi le proprie motivazioni nella costruzione di un pensiero che sia in grado di descriverlo, che non copi le mode ma invece cerchi un proprio percorso autonomo, legato a ciò che ci ha portato nel XXI° secolo, stando bene attento a non copiare né imitare il passato, perché non si può fare, non ha senso.
Ha senso però, anzi direi che è necessario, tenerne conto.
Concordo con Hans Ulric Obrist, che recentemente ha rivisitato le Considerazioni inattuali di Nietzsche, quando sostiene che appartiene al proprio tempo solo chi non coincide perfettamente con esso.
E’ per via di questa discrepanza, di questo anacronismo, che una persona si dimostra più adatta di altre a percepire e cogliere la propria epoca. Giorgio Agamben fa seguire a questa osservazione la sua seconda definizione di contemporaneità: E’ veramente contemporaneo chi è in grado di percepire l’oscurità, chi non si fa accecare dalle luci della propria era o del proprio secolo (1).
In questo senso mi sento di appartenere al periodo che vivo interpretandolo attraverso la fotografia.
© 01.06.2014 | Aldo Sardoni
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(1) Dalla prefazione di H.U. Obrist “Avere fame di vento” in “A chi serve la luna? Le mostre della Fondazione Nicola Trussardi”, catalogo a cura di Massimiliano Gioni, Fondazione Nicola Trussardi, 2010.