Più vado avanti più mi rendo conto che il lavoro che cerco di fare è solo legato alla conoscenza dell’altro che è presente in ognuno di noi.
Quando nelle note precedenti ho scritto di volere rappresentare un paesaggio inatteso non avevo questa consapevolezza, cercavo la costruzione di un luogo fisico ma comincio a pensare che non sia esattamente così.
Mi ritrovo a fotografare occhi, sguardi, luoghi d’ingresso nell’altro.
Voglio conoscerlo, indagarlo per pura curiosità umana, per desiderio di conoscenza, è evidente che con tutta probabilità attraverso l’altro cerco di conoscere me stesso.
Probabilmente è banale, forse scontato, ma non m’importa.
Non cerco la straordinarietà, lei (la straordinarietà) se deciderà di apparire sarà per merito del soggetto ritratto.
La fotografia per me è essenzialmente questo, uno strumento di comunicazione di cose che altrimenti non possono essere viste.
Può dare senso ad una intera vita.
Sento che in alcuni casi si stabilisce con l’altro un’alchimia perfetta, un passaggio di onde, una sorta di transfert in cui chi fotografa e chi viene fotografato costruiscono un altro luogo tirando fuori l’altra parte o le altre parti di se.
E’ un processo reciproco non unilaterale e quando accade mi sembra di leggerne il risultato, di trovarmi davanti al fotogramma che rappresenta sì un paesaggio inatteso ma che non è fisico, tangibile, è un luogo inaspettato che in quel momento ed in quella particolare condizione si è manifestato e a cui lo spettatore darà successivamente significato.
Quando ciò accade mi sembra che allora le mie fotografie raccolgano un senso e lo diano al mio lavoro.

© 30.07.2011|13.02.2013 Aldo Sardoni
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