“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese.L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta” (1).
Se si osserva il disegno di Klee senza leggere ciò che ha scritto Benjamin si vedrà sicuramente qualcosa di altro, forse perdendone il senso o comunque dandone un altro.
La fotografia contemporanea, in modo particolare quella utilizzata come mezzo espressivo alla stregua di un’altra forma di arte (architettura, letteratura, pittura, scultura, musica), credo sempre più abbia bisogno di essere descritta , di essere accompagnata da un testo che aiuti lo spettatore ad andare oltre la prima impressione, di portarlo a ragionare sul significato che l’autore ha voluto dare magari ad una serie di immagini fra loro correlate.
C’è un aspetto di coinvolgimento e condivisione con il fruitore che credo debba essere stimolato non solo attraverso l’immagine ma anche con il testo. L’esperienza dell’arte ha come elemento centrale l’attività dell’immaginazione a cui chi osserva un’opera deve attingere necessariamente.
Per me una fotografia assume pieno significato quando una parte di essa è scritta, cioè descritta attraverso la scrittura, concordo con Harold Rosenberg quando dice “un quadro o una scultura contemporanei sono una specie di centauro, fatto per metà di materiali artistici e per metà di parole” (2).
Fotografo perché non so scrivere, compongo i miei lavori secondo una necessità intima, un desiderio, una pulsione che a volte mi riempie a volte mi abbandona, per questo motivo lascio spazio ad un tempo interiore senza l’assillo della produzione necessaria.
Voglio amplificare il legame tra realtà fotografica e passato che Roland Barthes descrive come sempre presente in una fotografia.
Il mio lavoro è tutto teso alla ricerca di un legame nell’arte tra passato e contemporaneità, escludendo il concettualismo nato nel 1913 con i Ready Made dello straordinario Duchamp che ancora oggi continua a fare proseliti.
Sento il concettualismo ormai passato e nel contempo troppo prossimo per attingervi, personalmente lo sento più “vecchio” e superato, ad esempio, del Barocco benché quest’ultimo sia cronologicamente più lontano.
Cerco un luogo dove approdare, pur nella consapevolezza che è uno spazio mobile che si sposta man mano che mi avvicino, cambiando di prospettiva e significato.
Forse questo è uno dei modi per dare senso ad un’esistenza.
Sono molto attratto dai territori di confine, quei luoghi poco definiti perché ancora sconosciuti o comunque non perfettamente codificati. Luoghi che non corrispondono necessariamente ad uno spazio fisico, spesso sono mentali, altre volte parti della condizione umana.
Le mie fotografie vogliono migrare verso territori dove i confini sono poco chiari.
Un luogo che abbia superato la totale incapacità in cui oggi siamo sprofondati nell’avere avere manualità/tecnica/perizia nel fare,; mi piacerebbe andare un poco oltre, anche di un piccolissimo scarto rispetto a chi mi ha preceduto.
Sarebbe magnifico.
Significherebbe produrre arte.
E’ sempre difficile definire l’arte ma condivido appieno, per quanto forse mi releghi fuori da ogni partita, la definizione che ne ha dato L. Tolstoj quando, tra le altre cose, dice che “l’arte non è, come dicono i metafisici, la manifestazione di qualche misteriosa idea, della bellezza o di dio; non è come dicono i fisiologi, un giuoco in cui l’uomo sfoga le superflue energie accumulate; non è la manifestazione di un’emozione per mezzo di segni esteriori; non è la produzione di opere gradevoli; e, ciò che più importa, non è godimento; ma un mezzo di comunicazione che riunisce gli uomini accomunandone le sensazioni, ed è necessaria alla vita e al progresso verso il bene del singolo uomo e dell’umanità” (3).
Guardare alla tradizione non è male a priori, credo sia importante per poi decidere cosa fare.
Il fatto che l’Italia contenga una consistente parte del patrimonio artistico occidentale, che sia lo scrigno e la memoria artistica dell’Europa, credo debba in qualche modo influenzare un autore italiano, in qualsiasi campo dell’arte, forse in qualsiasi campo dello scibile umano.
“<L’Italia> non è soltanto e semplicemente un luogo su cui proiettare il rimosso e l’inconscio, ma è a pieno titolo un luogo dove si articola la cultura occidentale e che appartiene alla psiche collettiva di ciascun uomo e di ciascuna donna dell’Occidente”(4).
Veniamo certamente dal Mediterraneo, la sua luce ha influenzato la nostra arte, le ombre nette, i chiaroscuri intensi, i colori saturi, sono elementi che hanno contribuito nei secoli alla formazione dei nostri artisti; non è difficile riconoscerli non solo in pittura, ma anche in scultura, architettura ed oggi in fotografia.
La tela.
Per me è il “medium” più importante, la sua trama dà alle mie immagini un aspetto materico che non riesco ad avere in altro modo; elimina la perfezione tecnica, mi è necessaria per tornare indietro, per richiamare, per alludere, non per copiare o imitare un dipinto; non c’è concorrenza tra pittura e fotografia, hanno statuti diversi, storie diverse, mezzi tecnici diversi.
Credo siano fra loro complementari ma la pittura è pittura e la fotografia è fotografia.
Migro idealmente verso la pittura non per copiarla ma per usare parti di essa, stralci del suo
codice che composti assieme danno luogo ad un’altra cosa, o così mi piacerebbe che fosse.
Charlotte Cotton ha riassunto bene questa vicinanza: “E’ importante non pensare che l’affinità che lega fotografia artistica contemporanea e pittura figurativa sia dovuta solo al desiderio di
imitazione o di revival; essa dimostra invece di condividere con la pittura la conoscenza di come si può coreografare una scena per lo spettatore così che egli sia in grado di comprendere che si sta raccontando una storia” (5). Non condivido il sostantivo coreografare, ma mi piace pensare che derivi da un problema di traduzione dall’inglese.
Il mezzo, lo strumento fisico che utilizzo, è certamente contemporaneo, le tecnologie di stampa sono le più avanzate che oggi si conoscano. E allora? Il legame?, l’allusione?, il ponte?
Certo non posso trovarli ricopiando le pose di Michelangelo alla Sistina, la considererei un’operazione sbagliata per un italiano, un’omologazione gratuita in cui spesso si cade.
Non ne faccio una questione di merito né di sterile polemica con chi fa queste operazioni, non mi interessa il meglio o il peggio, mi interessano le differenze, lavorare su di esse e se possibile amplificarle.
Pertanto non avendo risposte precise su cos’è il ponte verso il passato, come dovrebbe esplicarsi questo legame, vado avanti.
Continuo a cercare.
Le mie fotografie sono tecnicamente imperfette, volutamente tali.
Bisognerebbe accordarsi su cosa è una fotografia imperfetta, comunque non vogliono rappresentare il reale. Vladimir Nabokov diceva a proposito di realtà che è una “parola che in qualsiasi lingua bisognerebbe scrivere fra virgolette” (6), non voglio realismo nei miei lavori piuttosto l’invenzione, come nelle vedute di G.B. Piranesi solo apparentemente descrittive ma in realtà dettate dalla capacità creativa dell’autore.
Quando affermo che la mia fotografia è imperfetta mi riferisco proprio alla ricerca di questa vicinanza. Non mi interessa la frequentazione della fotografia tecnicamente protocollata, per cui per essere contemporanei è necessario stampare su un certo tipo di carta, con un certo tipo di supporto, con un’illuminazione che segua precise regole, ecc. Questa è una fotografia tecnicamente già normata, per me poco attraente.
Credo che la definizione più pertinente e più vicina al mio pensiero per cercare di chiarire e di chiarirmi il pensiero riguardo alla migrazione verso altre discipline sia: Fotografia Trans. Oppure Trans Fotografia prendendo a prestito foneticamente l’invenzione di Achille Bonito Oliva (Transavanguardia) (7).
Fotografia Trans nel senso etimologico del termine, cioè “al di là – attraverso”.
Quando parlo di transizione mi riferisco all’uso di elementi stilistici che alludono o richiamano altre discipline, non all’uso indiscriminato della post-produzione a cui molta fotografia oggi fa riferimento. Copiare, ruotare, specchiare, incollare figure diverse fotografate in luoghi e contesti diversi per comporre un’immagine, per me, è un atteggiamento più legato al mondo pubblicitario e della computer grafica che non della fotografia.
La fotografia ha un proprio statuto di riferimento a cui si deve comunque guardare se non si vuole andare a finire in altri ambiti.
Sento la necessità di arrivare ad una fotografia che mescoli codici diversi per dare luogo ad un lavoro meno definibile all’interno di un codice noto o dato.
La stessa fotografia oggi è in transito dal sistema analogico a quello digitale, da un’attività usata relativamente da pochi ad una moltitudine infinita di fotografi, da artigianato ad arte (almeno in alcuni casi).
E’ in transito da e per numerosi aspetti ancora in via di definizione o di ri-definizione.
Trovo il prefisso trans particolarmente adatto, come la transessuale che è un essere nuovo, con elementi maschili e femminili mescolati per formare qualcosa che ha spostato il confine rispetto a quanto stabilito in precedenza.
Ancòra i confini che si spostano.
Non amo le incursioni cruente di una disciplina nell’altra, le metafore eccessivamente dirette; credo più alle allusioni, ai rimandi, che non ad una esplicitazione meccanica.
La tecnica.
E’ importante conoscerla per poi metterla da parte così che non condizioni eccessivamente il pensiero.
La ricerca fuori dal protocollo tecnico è necessaria per arrivare, ad esempio, alla differenza che oggi troviamo nella riproduzione musicale tra il vinile ed il file audio digitale.
Il vinile è “imperfetto”, ma tale modo di essere consente all’ascoltatore di sentire il respiro, l’ansia, l’anima di chi suona o canta, a dispetto del cd che ha una perfezione tale da sembrare spesso asettico, troppo perfetto per essere vero. Oggi i professionisti della musica lavorano con il vinile.
Ancòra.
Mi è capitato di vedere il ritratto di Henry James dipinto da John S. Sargent nel 1913 e conservato alla National Portrait Gallery di Londra, mi sembra un esempio pertinente per definire quanto scritto finora.
L’interpretazione del suo autore, la luce, l’espressione, il calore, sono elementi che uniti insieme definiscono James in modo stupefacente ed emozionante forse più delle fotografie che lo ritraggono cercando di congelare e raccontare tecnicamente il volto.
E’ evidente che non sono in alcun modo interessato al Tableau Vivant, mentre sento la fotografia come un mezzo di scrittura e di riscrittura, in particolar modo riscrivere per me significa utilizzare chi ha già scritto, pertanto riscrivere è un altro collegamento con ciò che è stato.
E’ importante cercare di capire che non è consentito in alcun modo copiare il passato ma sento la necessità di averlo affianco, di tenerne conto. Di guardare avanti volgendosi spesso indietro.
La storia ha un suo peso.
Cerco un linguaggio riconoscibile non solo per stile ma per presenza di significati.
Il significato per chi è nato in Italia ha una valenza ed un percorso diversi da altri popoli, penso che ognuno di noi abbia dalla nascita nel proprio codice genetico un pezzo di Colosseo anche se non è mai stato a Roma(*); intendo dire che sembra quasi che la storia dell’arte, e non solo, si depositi in noi fin da bambini, anche involontariamente e strato dopo strato formi il nostro modo di essere, di vedere, di interpretare.
Come gli strati di città che si depositano uno sull’altro nel corso dei secoli fino a manifestare quello che siamo oggi, fino a formare il Colosseo di oggi, appunto, che non è quello originario. Una serie di fogli di carta trasparente sovrapposti uno sull’altro sopra ognuno dei
quali c’è scritto qualcosa e che alla fine, tutti insieme, formano un disegno complessivo, forse un progetto, certamente una cultura.
Sento questa stratificazione come la grande differenza con gli americani, per pensare ad un popolo che vive nello stesso nostro sistema ed in un certo senso è una nostra derivazione.
Direi contemporanea derivazione, noi abbiamo almeno quel paio di millenni in più che inevitabilmente ci condizionano.
Amo quel paio di millenni in più.
Amo Roma, che per me è un luogo del pensiero più che una città fisicamente definita; per questo motivo mi sento romano, non solo perché ci sono nato o i miei antenati lo erano.
Il nostro XVI° secolo – per esempio – è molto diverso dal loro ovviamente (da quello degli americani intendo) e di questo chi produce cultura deve tenerne conto.
L’Europa usa le scarpe di cuoio con i lacci (o almeno le usava …), l’America le sneakers.
Significa molto.
Non credo, come va molto di moda oggi, che la deprecata vecchiezza del Continente europeo sia un disvalore, al contrario ho sempre considerato una grande risorsa la stratigrafia storica che permea il nostro essere europei.
Non mi soffermo sulle scarpe perché porterebbe le note lontane dallo scopo per cui sono state scritte, forse allungandole troppo ma è evidente che esse alludono ad una omologazione che non condivido, diversa dalla commistione di popoli e culture che ovviamente è necessaria.
Sono assai attratto dalla circolazione delle idee e dei popoli, meno dall’omologazione imperante che, spesso, ne è un’inevitabile appendìce, anche nell’arte.
Voglio sentire in me e trasmettere a chi osserva il legame con la classicità, nel senso etimologico del termine “classico”, senza scadere nella copia di chi c’è già stato.
Questo per me sarebbe un grande risultato e rappresenta un elemento fondamentale della mia ricerca.
Il nero.
Il nero mi è necessario, oggi lo sento come l’elemento più importante delle mie fotografie, non potrei farne a meno, non riuscirei a vivere senza.
Rappresenta la parte sconosciuta, quella poco definita ed interpretabile dallo spettatore, così da cercare di arrivare alla costruzione di un paesaggio totalmente inatteso,partendo dal concetto che il fotogramma non deve rappresentare “ciò che è stato” (R.Barthes) ma assurgere ad un nuovo significato vedendo gli elementi che lo compongono da un altro punto di vista “proponendo una nuova interpretazione di ciò che costituisce l’immagine estetica” (8).
Paradossalmente lo considero la parte più importante delle mie fotografie, quella in cui il coinvolgimento si fa più pressante.
Sento la necessità, direi quasi il dovere, di uscire dal ghetto di una certa idea di contemporaneità; cercare di muoversi dal proprio tempo è necessario per superare il confine ristretto delle mode, per andare oltre il cerchio del provincialismo, che è uno stato mentale non
un luogo fisico dove si passa la propria vita. Si può essere provinciali anche se si vive nel centro di una metropoli.
Finisco queste note scrivendo che vorrei provare ad uscire dall’insegnamento di credere all’oggettività della prova fotografica, cercando di utilizzare la fotografia come testo. Trovo interessante, stimolante e necessaria la domanda che si pone la Krauss: “ Se per esempio dovessimo rappresentare Cézanne <al lavoro>, come potremmo mostrare le sue ore passate a osservare che furono poi distillate in ognuno dei suoi famosi colpi di pennello?” (9).
Vorrei che la mia fotografia fosse orientata verso lo stesso tipo di problema, magari riuscendo, almeno in parte, a rappresentare quelle ore.
© 2013-2016 | Aldo Sardoni
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NOTE
(1) Walter Benjamin (a cura di) R. Solmi, Angelus Novus saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 2006, p. 80
(2) Angela Vettese, Capire l’arte contemporanea, Umberto Allemandi & C., Torino, 2006, p. 13
(3) Lev Nikolaevic Tolstoj, Che cos’è l’arte, Donzelli, Roma, 2010, p. 60
(4) James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi, Milano, 2001, p. 181
(5) Charlotte Cotton, La fotografia come arte contemporanea, Einaudi, Torino, 2010, p. 53
(6) in Luigi Sampietro, Cacciatore di farfalle e di dettagli, domenicale Sole 24ore del 30.01.2011, Milano.
(7) Movimento artistico teorizzato nel 1982 da Achille Bonito Oliva.
(8) Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996, p. 2
(9) Ibidem p. 86
(*) Secondo Jorge Luis Borges “a Roma non ci si va ma vi si torna anche se non vi si è mai stati perché Roma è un mito dell’immaginazione universale”.